Il sistema di accoglienza italiano ha scelto di far tornare i numeri a scapito delle tutele

 

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Lo avevamo detto subito, noi dell’Arci, a luglio 2014, quando il Piano Nazionale di Accoglienza era stato presentato come un ottimo risultato, che le evoluzioni del sistema paventate all’interno destavano dubbi e preoccupazioni.  Un accordo forse sottovalutato: tutti gli interventi successivi, dal recepimento di direttive alle circolari ministeriali hanno avuto quell’ accordo come faro guida.  L’introduzione di tre livelli di interventi, facilmente individuabili con le sigle, Cpsa – CARA/CAS – Sprar , vanno incontro a una messa a sistema dei numeri dell’accoglienza, a un ordine formale, alla necessità di essere in grado di dare le statistiche  quando l’Europa ce lo chiede. Vanno contro  però alla tutela e a i percorsi di integrazione.
Vogliamo subito fare una premessa: modificare il sistema di accoglienza subordinando la sua durata allo status giuridico delle persone senza migliorare la procedura, e non solo dal punto di vista quantitativo (fare subito, fare male!) ma soprattutto da quello qualitativo, è perdente.
Ci sembra che si stia delineando un sistema che riconosce sempre meno aventi diritto alla protezione internazionale così che i numeri della seconda accoglienza possano essere adeguati alla domanda e che stiano accelerando le procedure al punto da non permettere un percorso anche minimo di presa in carico della persona, di emersione dei traumi e di rielaborazione del vissuto drammatico del viaggio verso l’Europa. Aumentano così i diniegati, nonché i titolari di protezione umanitaria. I primi diventeranno, per la maggior parte, ricorrenti andando così a stressare i Tribunali Ordinari competenti e i secondi, la più significativa compagine di titolari di protezione in Italia, finiscono col vedersi negato il diritto all’accoglienza in quanto non più esplicitamente normato.  Né il Decreto Legislativo n. 142 entrato in vigore il 30 settembre 2015, né la circolare esplicativa emanata dal prefetto Morcone il 30 ottobre 2015 fanno infatti riferimento alla possibilità di accedere all’accoglienza da parte dei titolari di protezione umanitaria.
Il nuovo decreto assicura l’accoglienza esclusivamente ai richiedenti asilo fino all’esito del ricorso in primo grado (qualora venga presentato). La circolare invece rimanda al decreto ministeriale del 7 agosto 2015 per il trasferimento di titolari di protezione internazionale all’interno dello Sprar ma non fa cenno ai titolari di protezione umanitaria. Più del 50% degli esiti positivi registrati nel 2015 è il riconoscimento della protezione umanitaria. Le commissioni territoriali sembrano orientate a verificare il percorso di integrazione e le vulnerabilità dei richiedenti riconoscendo loro questa forma di protezione e poi però il sistema di accoglienza non vorrebbe che finissero tra i propri utenti.
Da un lato si chiede loro prova del percorso di inserimento, dall’altro non gli si permette di esser beneficiari di un’accoglienza integrata che li sostenga nel cammino verso un’autonomia lavorativa e abitativa.
Stiamo chiudendo gli occhi e lo stiamo facendo con scienza e coscienza.  L’Italia deve adoperarsi per fare e non per dare accoglienza. Non ci sono ragioni di sostenibilità economica che tengano: cosa pensa il Ministero dell’Interno dei titolari di protezione umanitaria che non vengano inseriti? Che scompaiano?
Se il Piano di Accoglienza Unificato deve essere il nostro riferimento allora ci appelliamo alla dichiarazione più importante: il sistema Sprar è destinato a diventare il modello di riferimento nazionale per l’accoglienza. Per l’accoglienza di tutti però: richiedenti asilo, titolari di protezione umanitaria e titolari di protezione internazionale.
L’Arci continua a chiedere un sistema unico, un rafforzamento dello Sprar con una categoria di centri specializzati nella prima accoglienza e un coordinamento di questi centri affidato alle regioni. Banca dati unica, standard unico e sistema di monitoraggio e verifica unico.

di Valentina Itri, ufficio Immigrazione Arci nazionale

 

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