Approccio hotspot. Obiettivo: identificare

Ricordate quando ci chiedevano di accogliere con favore l’operazione Triton, in sostituzione di Mare Nostrum, perché rappresentava la condivisione di responsabilità tra i paesi dell’UE? Omettendo, con dolo, che mutava completamente la finalità dell’operazione: dal salvataggio delle persone si passava alla protezione delle frontiere. La stessa strategia viene applicata ora dalla CE per presentare l’approccio hotspot: vogliono farci credere che sia un’operazione ispirata al ricollocamento dei rifugiati che arrivano in Italia e Grecia in tutti i paesi membri, argomentando che sono i primi passi verso un sistema d’asilo europeo che alleggerirà l’Europa mediterranea nella gestione degli arrivi. Non è così. L’approccio hotspot risponde alle paure degli Stati di accogliere le persone in fuga dai conflitti senza che vengano immediatamente identificate. Andiamo per ordine.

Il Consiglio Europeo ha adottato una misura di emergenza, che quindi non ha necessitato di avvallo del Parlamento Europeo, per cui i richiedenti asilo appartenenti a una nazionalità il cui tasso medio europeo di riconoscimento della protezione internazionale sia pari o superiore al 75%, e giunti in Europa dopo il 23 marzo 2015, hanno diritto ad esser ricollocati. Tutto l’impianto ha un presupposto razzista che nulla ha a che fare con il diritto d’asilo e con la sua soggettività. Di fatto attualmente potranno essere ricollocati solo eritrei e siriani. Questo presupposto è fondamentale per comprendere l’inefficacia dell’operazione anche dal punto di vista dell’Italia e delle nostre difficoltà di gestione del fenomeno. Nel 2014 sono sbarcati in Italia 34.329 eritrei, di cui solo 480 hanno chiesto asilo, e 42323 siriani, di cui solo 505 hanno chiesto asilo. L’approccio hotspot cerca di ‘legalizzare’ lo spostamento dei richiedenti asilo eritrei e siriani che già non gravavano sul sistema di accoglienza italiano in quanto si allontanavano volontariamente prima di essere identificati. L’Italia si è quindi impegnata a identificare tutti in cinque aree portuali: Lampedusa, Porto Empedocle, Pozzallo, Trapani, Augusta e Taranto. Qui le persone che vogliono chiedere asilo dovranno subito dichiarare la loro volontà e farsi identificare altrimenti verrà immediatamente notificato loro un provvedimento di espulsione e verranno trasferiti nei CIE per esser rimpatriati. Improvvisamente si chiede agli eritrei, tra le principali vittime dei naufragi in mare, di fidarsi. Un approccio che ha già provocato conflitti a Lampedusa, dove l’accoglienza rischia di esser di nuovo trasformata in trattenimento; un approccio che non è spiegabile a persone che hanno rischiato la propria vita per raggiungere l’Europa. Un approccio che chiede a noi enti di tutela di fare da cuscinetto, di filtrare, di persuadere: eppure l’unica cosa che adesso possiamo fare è denunciare le discriminazioni che si stanno mettendo in atto.

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